Gli italiani si lanciarono molto presto sulla via aperta dai fratelli Lumière. Roma divenne naturalmente capitale della settima arte. Il cinema, nonostante le crisi ricorrenti, resta una delle principali industrie della città.
L’epoca del muto vide gli schermi invasi da produzioni colossali di storia-finzione. Accanto a Nerone, Cabiria e Maciste, un regista non esitò a calare la cinepresa nell’ “Inferno” di Dante e Virgilio. Fu poi il turno delle donne fatali, le dive, aggrappate a tendaggi di velluto con gli occhi al cielo.
Nel dopoguerra, il realismo fu una reazione alla retorica dello sconfitto regime. Nel clima progressista che precedette l’offensiva della destra del 1948, i cineasti si ritrovarono naturalmente impegnati a sinistra, a dispetto delle loro origini borghesi, se non aristocratiche. Era viva ancora l’emozione degli orrori della guerra e le difficoltà di ricostruzione. In “Paisà” (1946) Roberto Rossellini offrì un’immagine sobria e avvincente della Liberazione. In “La terra trema” (1948) Luchino Visconti, sull’onda di Verga, parlò della miseria siciliana. Ma il film più conosciuto di questo periodo è “Ladri di biciclette” (1948) di De Sica. Nella prima metà degli anni Cinquanta Fellini iniziava a girare i suoi primi film. L’avventura della sua vita, la scoperta di Roma da parte di un provinciale di Rimini, è presente ne “I vitellon” (1953), “La dolce vita” (1959), e in “Roma” e “Amarcord”. I fantasmi del provinciale esposto alle tentazioni della grande città, vivono in tutti i suoi film. Fanno eccezione quelli girati con la moglie, Giulietta Masina: “La strada” e “Le notti di Cabiria”. Antonioni sviluppa i temi dell’incomunicabilità e della difficoltà esistenziale in “L’avventura” (1959), “La notte” (1960).
Alla fine degli anni Cinquanta, Risi rilancia la commedia popolare con “Poveri, ma belli”.
A partire dalla metà degli anni Sessanta iniziano a imporsi alcuni giovani registi che affermano il loro impegno sociale: Bellocchio, Bertolucci, Zeffirelli, Scola, Comencini e Monicelli.